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Comunicazione di avvio del procedimento obbligo o facoltà

Comunicazione di avvio del procedimento: obbligo o facoltà?

La sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria 300/2021 si sofferma sulla tematica dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ex art. 7, legge 241/1990 nonché della motivazione del provvedimento amministrativo ex art. 3 della medesima legge.

Il Collegio giudicante sottolinea come gli adempimenti previsti dall’art. 7, legge 241/1990 abbiano «una valenza sostanziale e non meramente formale, specialmente dopo l’introduzione dell’art. 21 octies della citata legge».

Il combinato disposto degli artt. 7 e 8, legge 241/1990 sancisce l’obbligo per la Pubblica Amministrazione di dare notizia, mediante comunicazione personale, dell’inizio di ciascun procedimento amministrativo “ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi”.

Nella predetta comunicazione devono essere rese note una serie di informazioni (l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento promosso, il nominativo del responsabile del procedimento) finalizzate anche a garantire l’esercizio dei diritti dei partecipanti previsti dal successivo art. 10 della legge, vale a dire il diritto di prendere visione degli atti del procedimento e quello di presentare memorie scritte e documenti.

L’omessa comunicazione di avvio del procedimento comporta l’illegittimità e conseguente annullabilità del provvedimento adottato all’esito del procedimento amministrativo viziato.

Il privato, invece, per contestare tale vizio di legittimità deve «quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione». Questo comporta un onere processuale a carico del privato che è tenuto a dimostrare concretamente in giudizio l’utilità della sua partecipazione al procedimento amministrativo prospettando al giudice «elementi che, implicando valutazioni di merito (amministrativo o tecnico), possono trovare ingresso esclusivamente nel corso del procedimento sostanziale e non anche nel processo davanti al giudice» medesimo (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 marzo 2015, n. 1060).

Di fronte a tali elementi il giudice è tenuto a sua volta a «verificare l’eventuale incidenza sostanziale dell’omessa partecipazione procedimentale sul contenuto dell’atto finale» (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 marzo 2015, n. 1060) e quindi ad accertare, all’esito del contraddittorio, se tali elementi fattuali o valutativi avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento amministrativo qualora fossero stati regolarmente introdotti nell’iter procedimentale.

Il Collegio, nel caso in esame, ha sottolineato un altro vizio del provvedimento impugnato, vale a dire la carenza di motivazione. Sul punto vale la pena ricordare che l’art. 3, legge 241/1990 individua nella motivazione un elemento essenziale del provvedimento amministrativo, la cui funzione è quella di enucleare «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria».

Il giudice riconosce la legittimità dell’azione amministrativa soltanto laddove nel provvedimento emanato la PA, attraverso una ricostruzione coerente e sufficiente dell’iter procedimentale, enuclei le ragioni logico-giuridiche sottese alla decisione assunta in modo da dare contezza dell’esercizio del potere amministrativo. Infatti, la motivazione da un lato consente al soggetto leso dal provvedimento di impugnare quest’ultimo e di contestare le ragioni logico-giuridiche addotte dalla Pa, dall’altro permette al giudice di esercitare quella essenziale funzione di controllo sulla discrezionalità della PA che, sebbene circoscritta ai casi di manifesta illogicità, irrazionalità e irragionevolezza, permette di evitare che essa trascenda i limiti posti a tutela dell’intera collettività trasformandosi in mero arbitrio.

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