PATRIMONIO INDISPONIBILIE O DISPONIBILE?
La distinzione tra beni del patrimonio indisponibile e beni del patrimonio disponibile degli enti territoriali è positivizzata nell’art. 826 c.c. e determina l’applicazione di un differente regime giuridico, dove i primi sono direttamente destinati al raggiungimento degli interessi pubblici perseguiti dall’ente, i secondi, da individuare per esclusione, assolvono ad una funzione essenzialmente strumentale a tali compiti.
La disciplina della indisponibilità richiede, oltre alla sussistenza dell’elemento soggettivo, costituito dalla proprietà di un ente territoriale, la sussistenza di un vincolo di destinazione che si traduce in una limitazione della libertà di sottrazione del bene ai fini cui è destinato, non potendo i beni ascrivibili in tale categoria essere sottratti alla loro destinazione, ex art. 828 c.c., se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. Ad una indisponibilità per natura, che prescinde dalla destinazione in considerazione delle caratteristiche obiettive dei beni, si aggiunge, una indisponibilità per destinazione, impressa con legge ovvero con provvedimento amministrativo, ritenendosi, peraltro, necessaria una effettiva e concreta utilizzazione per il soddisfacimento di un interesse proprio dell’intera collettività (cfr. C. Cass. n. 12023 del 2004). Anche la giurisprudenza è costante nell’affermare che per il riconoscimento dell’appartenenza al patrimonio indisponibile di un bene è richiesta la compresenza di un requisito soggettivo, consistente nella proprietà del bene da parte della pubblica amministrazione e di uno oggettivo, costituito dalla concreta destinazione dello stesso al pubblico servizio (cfr. ex multis, T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. I, 06 marzo 2018, n. 181; Cass. civ., Sez. Un., 25 marzo 2016, n. 6019; Cass. civ., Sez. Unite, 28 giugno 2006, n. 14865, Cass. civ., Sez. II, 13 marzo 2007, n. 5867).
LOCAZIONE O CONCESSIONE?
La mancanza dei requisiti necessari all’insorgere del vincolo di indisponibilità e la conseguente collocazione nel patrimonio disponibile determina che la cessione in godimento del bene in favore di privati non può essere ricondotta ad un rapporto di concessione amministrativa, ma, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, la stessa viene ad inquadrarsi nello schema privatistico della locazione, con conseguente devoluzione della cognizione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario.
Diversamente, la natura indisponibile delle aree ha immediate implicazioni in ordine alla qualificazione del rapporto sotteso alla loro utilizzazione, rapporto che, anche qualora dovesse essere stato erroneamente inquadrato dal Comune nello schema della locazione, deve essere qualificato giuridicamente come concessione in uso di un bene pubblico per l’esercizio di un servizio pubblico, concessione cui accede una convenzione disciplinante i profili patrimoniali del rapporto pubblicistico. Una volta inquadrato il rapporto come concessione di bene pubblico, in coerenza con la natura dei beni e con la loro oggettiva destinazione funzionale, è evidente l’appartenenza delle controversia alla cognizione del giudice amministrativo, afferendo alla giurisdizione esclusiva di quest’ultimo in materia di beni e servizi pubblici.
COSAP/TOSAP O CANONE DI LOCAZIONE?
Le pubbliche amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni, per le fattispecie ricomprese nell’ambito di applicazione dell’art. 93 del codice della comunicazioni (PATRIMONIO INDISPONIBILE), hanno il divieto di imporre per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge. Con norma di interpretazione autentica, l’art. 12, comma 3 del d.lgs. n. 33 del 2016 ha chiarito che l’art. 93, comma 2 del d.lgs. n. 259 del 2003 “si interpreta nel senso che gli operatori di comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni espressamente previsti dal comma 2 della medesima disposizione” (TOSAP, COSAP). La presenza di un diverso assetto convenzionale, che preveda il pagamento di canoni concessori eccedenti il limite legale del valore di Tosap e Cosap non può tradursi in uno strumento elusivo del paradigma normativo, che a tutela di interessi primari limita l’onere economico del concessionario. I principi alla cui tutela tende l’art. 93 del D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259 sono espressione di valori fondamentali del sistema ed assurgono al rango di principi di ordine pubblico, sicché la norma, che limita l’onere economico dei concessionari, ha natura imperativa e deve esserne garantita l’operatività anche nella disciplina di rapporti in corso di svolgimento, secondo il meccanismo dell’eterointegrazione contrattuale, ex art. 1339 c.c., con sostituzione automatica della clausola nulla per contrarietà a norma imperativa, secondo la previsione dell’art. 1419, comma 2, c.c. (sul punto, già Tar Lombardia Milano, sez. IV, 24 giugno 2016, n. 1233).
Va precisato che, ai fini dell’operatività della disciplina legale posta dall’art. 93 cit., è del tutto irrilevante la circostanza che il c.d. contratto di locazione stipulato tra le parti sia in realtà una concessione amministrativa, cui accede una convenzione per la regolamentazione degli aspetti patrimoniali del rapporto, in quanto la configurazione in termini pubblicistici non preclude il rilievo d’ufficio della nullità parziale, secondo la previsione dell’art. 31, comma 4, cpa.
Diversamente, esclusivamente per i beni facenti parte del PATRIMONIO DISPONIBILE degli enti pubblici territoriali e con carattere, dunque, di residualità, è possibile pattuire un canone, versandosi solo in detta ipotesi (e non anche con riferimento ai beni demaniali e del patrimonio indisponibile) al cospetto di un ambito nel quale l’amministrazione opera jure privatorum (cfr. Trib. Torino, sezione VIII, 30 ottobre 2018, n. 5059 “La determinazione del bene (…) non consegue ad una “autorizzazione” o ad una “concessione” amministrativa (….) bensì ad uno strumento di autonomia negoziale privata, nella specie un “contratto di locazione di immobile ad uso non abitativo”. Il rapporto (…) in essere tra le parti non ha natura concessoria bensì contrattuale in quanto trova la sua fonte non già in un atto amministrativo (di concessione) bensì in un contratto di locazione immobiliare”). Al riguardo, alla luce del quadro normativo vigente deve escludersi la sussistenza di un vincolo per l’amministrazione nella determinazione del canone di locazione dei beni rientranti nel proprio patrimonio disponibile, per i quali opera l’ordinario regime privatistico, essendo piuttosto rimessa agli operatori la razionale ponderazione delle scelte ritenute più congrue nell’esercizio della propria attività economica, tenuto conto delle ampie e variegate possibilità di realizzazione e accesso alle infrastrutture previste dalla disciplina di riferimento.
FINE CONCESSIONE OBBLIGO RINNOVO?
L’ordinamento vigente non riconosce alcun generalizzato diritto di insistenza al concessionario di un bene pubblico, diritto che sarebbe palesemente contrastante con inderogabili principi, interni ed eurounitari, in tema di trasparenza e parità di trattamento (cfr. Corte Giust., Sez. V, 14 luglio 2016, in C-458/14 e C-67/15) tra i diversi operatori potenzialmente interessati all’assegnazione di un bene pubblico (cfr. Consiglio di Stato n. 3960/2014, ove si evidenzia che “il concessionario di un bene demaniale non può vantare alcuna aspettativa al rinnovo del rapporto; pertanto, in sede di rinnovo, il precedente concessionario va posto sullo stesso piano di qualsiasi altro soggetto richiedente lo stesso titolo”; sul punto, anche T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, 18/07/2017, n. 3838).
Il consolidato orientamento giurisprudenziale dà atto che l’ordinamento non assegna al concessionario alcun diritto d’insistenza, né aspettative di sorta al rinnovo del preesistente rapporto concessorio (cfr. al riguardo, ex plurimis, T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 21 giugno 2017, n. 7251; Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2010, n. 725; idem, n. 4776 del 2013; idem, 31 dicembre 2014, n. 6448).
L’assegnazione di un bene pubblico richiede, in applicazione dei principi di trasparenza e parità di trattamento, l’attivazione di una procedura selettiva, improntata a criteri di imparzialità e non discriminazione, per la nuova assegnazione delle aree. Il rinnovo equivale ad un nuovo affidamento e, come è noto, ogni nuovo affidamento deve svolgersi mediante gara pubblica.
La giurisprudenza comunitaria e nazionale ha da tempo precisato che i principi posti dal Trattato sull’Unione Europea a garanzia del buon funzionamento del mercato unico sono di applicazione generale e devono essere osservati in relazione a qualunque tipologia contrattuale tale da suscitare l’interesse concorrenziale delle imprese e dei professionisti, ancorché diversa dagli appalti di lavori, servizi e forniture, disciplinati da specifiche direttive comunitarie, come accade per le concessioni di beni pubblici di rilevanza economica, oltre che per le concessioni di servizi e gli appalti sottosoglia comunitaria (cfr. Corte di Giustizia, ordinanza 3 dicembre 2001, C-59/00; Corte di Giustizia sentenza 7 dicembre 2000, C-324; Consiglio di Stato, sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 362; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 settembre 2010, n. 7239; nello stesso senso la comunicazione della Commissione europea del 12 aprile 2000, pubblicata in Gazzetta ufficiale n. C 121 del 29 aprile 2000, richiamata e sviluppata da un circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per le politiche Comunitarie n. 945 in data 1° marzo 2002).
L’individuazione del concessionario di un bene pubblico di rilevanza economica, soggiace ai principi comunitari, sicché deve essere effettuata all’esito di una procedura ad evidenza pubblica, che garantisca l’apertura al mercato e il confronto competitivo tra gli operatori del settore. Procedura che impone la previa determinazione e pubblicazione dell’oggetto e degli elementi essenziali della concessione da affidare, compresa la relativa durata, trattandosi di un elemento decisivo ai fini della valutazione da parte dei potenziali concorrenti del loro interesse a partecipare alla gara.
Ne consegue che una volta scaduta la concessione, l’amministrazione concedente, qualora ritenga ancora coerente con l’interesse pubblico disporre ex novo l’affidamento in concessione del bene pubblico, deve rispettare i ricordati principi comunitari, garantendo che la scelta del concessionario avvenga all’esito di una procedura ad evidenza pubblica, dotata dei caratteri già ricordati.
I principi comunitari non possono essere elusi attraverso l’utilizzo di moduli convenzionali, ovvero attraverso la configurazione in termini meramente negoziali di un rapporto di natura oggettivamente pubblicistica al fine di dedurne la conservazione in capo al concessionario scaduto, ossia dopo il decorso del termine di durata della concessione, il diritto ad utilizzare per finalità economiche il bene pubblico, come accade nelle ipotesi di proroga o di rinnovo della concessione in favore dello stesso concessionario (cfr. su tali principi, ormai acquisiti a livello giurisprudenziale, già Tar Lombardia Milano, sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 187; in argomento, Consiglio Stato, sez. VI, 30 settembre 2010, n. 7239; T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 24 aprile 2013, n. 721).
Quindi, una volta scaduti i rapporti concessori sottesi all’assegnazione delle aree pubbliche, il concessionario non può vantare alcun titolo al fine di permanere nella gestione delle aree stesse. Il Comune, a ben vedere, con un provvedimento di rimozione si limita a prendere atto di tale situazione e può imporre, in modo legittimo, lo sgombero delle aree stesse, in esercizio del potere di autotutela esecutiva che compete all’amministrazione nella gestione dei beni pubblici di cui è titolare. Si precisa che apparirebbe infondato l’argomento secondo cui il provvedimento di rimozione delle antenne determinerebbe un’illecita interruzione di un servizio pubblico e, quindi, sarebbe palesemente illegittimo. Invero, l’interruzione del servizio, qualora verificatasi, non è riferibile all’attività dell’amministrazione, che legittimamente ha esercita le proprie prerogative di autotutela nella gestione di un bene pubblico, ma al concessionario, che, pur conoscendo la data di scadenza del rapporto concessorio, non si è attivato tempestivamente per la individuazione di ulteriori aree idonee allo svolgimento del servizio stesso, ipotizzando un insussistente diritto a permanere nel godimento dei beni pubblici.